19 Apr

LA SINDROME DELL’INQUISITORE

Avete presente quando incontrate qualcuno che sembra sempre insoddisfatto di qualunque cosa, e si lamenta argomentando con invettive circa qualunque situazione, persona o personaggio?

Molto probabilmente siete di fronte a un individuo che presenta quella che chiamo la Sindrome dell’Inquisitore.

Non è semplicemente un brontolone, uno che si lamenta giusto per farsi sentire, no: egli è un giudice.

E un giudice severo, anche: un Torquemada post litteram.

Mi è capitato spesso di imbattermi in questa forma di sofferenza (perché tale è, anche per l’Inquisitore) facilmente riconoscibile dal bisogno che ha l’individuo di mantenersi arrabbiato.

E’ una condanna gravissima che percepisce di doversi portare sulle spalle, per cui a livello inconscio non può accettare significativi miglioramenti della sua condizione e della qualità delle proprie relazioni.

Lo si nota dalla ripetitività con cui tutto, prima o poi, presenterà una sorta di tradimento, di violazione, di insulto, che si ritorcerà nei suoi confronti, lacerando le sue speranze: quelle Razionali, si intende.

Come ho già illustrato nell’ articolo che ha dato il via a questa serie (L’Alto e il Basso), quello che ci raccontiamo o di cui ci illudiamo a livello razionale non sempre corrisponde alle nostre esigenze Emotive e ciò genera sofferenza.

Nel caso della Sindrome dell’Inquisitore, tale sofferenza è altissima, in quanto il bisogno  inconscio di mantenersi arrabbiato sabota immediatamente qualsivoglia possibilità di realizzazione dei suoi desideri consci: e la cosa contribuirà a mantenerlo arrabbiato (che è il nutrimento emotivo con cui si è abituato ad alimentarsi).

Perché accade una cosa apparentemente così perversa?

Evidentemente, nel suo passato remoto questo individuo ha sviluppato una abitudine alla frustrazione, frutto di svariati accadimenti avversi: quello più classico è la sensazione di sentirsi rifiutati o svalutati dai propri genitori. Ma siccome, per qualche motivo che giace nella storia dell’individuo, egli non ha potuto applicare alcun rimedio per i torti subiti, allora l’unica forma per dar loro voce era quella di rendere noto il suo disappunto.

E la rabbia, inizialmente espressa attraverso il malessere estemporaneo, diventa la forma prediletta in cui dare dignità al proprio dolore, fino a diventare una fonte unica di energia emotiva.

<<Non sono riuscito a farmi amare e questo mi ha ferito profondamente, perché io avevo diritto ed ero degno di quell’amore? Allora tutto il mondo deve essere a conoscenza del mio dolore, e io potrò dare valore e dignità al mio dolore solo mantenendo viva la rabbia. Nell’attesa magica che il finale cambi, anche se razionalmente so che non può cambiare. E siccome nulla mi può consolare dal torto iniziale, allora non cercherò soddisfazioni reali, ma vivrò la mia soddisfazione nel mostrare a tutti, di continuo, quanto male mi è stato fatto>> questo, più o meno, è il pensiero inespresso (poiché inconscio) che la persona con la Sindrome dell’Inquisitore porta con sé.

Naturalmente il quadro di partenza può variare, dipende dalla storia personale di ognuno, ma il meccanismo è sempre lo stesso: siccome si percepisce il dolore come irrimediabile, esso deve essere tramutato in una perenne accusa al mondo, in qualunque forma. La vita reale prosegue, e le frustrazioni si ripetono, alimentando ad un livello metafisico quella grande e antica ferita, ormai diventata totalmente inconscia, che solo continuando a sferzare accuse recriminatorie può trovare la parvenza di aver ricevuto una forma di giustizia