27 Mar

LA SINDROME DI BABBO NATALE

Che ci si creda o no, il personaggio di Babbo Natale viene evocato spesso nella mia pratica di psicoterapeuta, formatore e psicologo dello sport.

Come anticipato nell’articolo precedente (che potete consultare, per rinfrescare l’argomento, cliccando qui), questo è il primo di una serie di articoli imperniati sulle cose che non hanno senso, cioè su quei meccanismi particolari che si innescano quando c’è una discrepanza tra il funzionamento di diversi livelli psicologici: per semplicità descrittiva li ho definiti  dell’<alto> e del <basso>.

Intendo cioè con <alto> il livello logico-razionale mentre con <basso> quello affettivo-emotivo.

La definizione NON sottintende una questione di importanza (cioè non è che voglio dire che è più importante l’alto del basso o viceversa), bensì di localizzazione simbolica.

Ho riscontrato infatti che è facile associare la razionalità alla testa, che sta in alto, e l’affettività alle viscere, che stanno in basso; ribadisco che si tratta di una simbologia semplificativa, non intendo certo una corrispondenza fisica effettiva.

Comunque è utile per potersi capire velocemente, e spesso mi ritrovo a passare il braccio davanti alla testa o davanti alla pancia e il paziente comprende immediatamente a cosa faccio riferimento.

Comunque, cosa c’entra tutto ciò con Babbo Natale?

In quanto Essere magico, portatore di doni e di PREMI, esso rappresenta un ideale di bontà e di giustizia che spesso auspichiamo quando la nostra realtà non ci appare adeguata ai nostri meriti, sforzi, capacità: e quindi non ci sentiamo abbastanza premiati dagli altri, dalla società, dal Sistema, dalla Fortuna, dal Destino.

Da qualcuno di esterno a noi, quindi.

In quanto, certo, capita a tutti di non sentire giustamente riconosciuti i propri meriti: il fatto diventa particolare quando NON riteniamo che dobbiamo essere noi a ribaltare tale ingiustizia: no, quel riconoscimento ce lo DEVE portare qualcuno da fuori, e noi non dobbiamo fare niente, perché siamo già stati sufficientemente buoni, bravi e pazienti.

Insomma, deve arrivare Babbo Natale.

Quando è possibile riconoscere che qualcuno (o noi stessi, perché no?) soffre della sindrome di Babbo Natale?

E’ piuttosto facile riscontarla in chi rifiuta (apportando sempre delle adeguate giustificazioni) qualunque soluzione ai propri problemi che debba eseguire lui/lei stesso/a: in un modo o nell’altro tali tipi di rimedi vengono sempre cassati e valutati impossibili, irrealizzabili, troppo difficili.

Una volta, per esempio, mi capitò di dare dei suggerimenti pratici per ridurre il peso corporeo a una signora in cura da me: intendiamoci, il suo problema era un altro, ma il cruccio del sovrappeso rischiava di intralciare troppo il percorso terapeutico, per cui decisi di sostenerla in questo senso.

Non che fosse facile: era resistente a qualunque tipo di dieta, non tollerava la frustrazione, e il movimento fisico la invogliava quanto la prospettiva di farsi estrarre dei denti sani senza anestesia.

Sia chiaro, a livello <alto> pure la signora riteneva di essere troppo pretenziosa, ma a livello <basso> sosteneva che tali limitazioni erano più forti di lei, e quindi qualunque tipo di restrizione o di sforzo fisico le era insopportabile.

Il mio primo suggerimento, che ho somministrato, ripeto, per favorire la terapia verso altri obiettivi, fu quello di fare delle semplici passeggiate immaginando di andare a prendere un treno e temendo di perderlo, così da tenere un buon ritmo.

Il tutto doveva durare un quarto d’ora (con un timer per segnalare il tempo e non dover guardare l’orologio) all’andata e un quarto d’ora al ritorno, tutti i giorni tranne la domenica.

La situazione di immobilità della paziente era tale che una simile abitudine, praticata anche solo per tre consecutivi, le avrebbe in ogni caso garantito un considerevole calo ponderale, nonché una maggior regolarizzazione dell’appetito: e ciò avrebbe favorito il percorso terapeutico, perlomeno lo avrebbe liberato di molti intralci.

Ovviamente non funzionò: arrivò addirittura a camminare senza calze, d’estate, con le scarpe da ginnastica, facendosi cosi (inconsapevolmente) venire delle grosse vesciche ai piedi, in modo da interrompere quel barlume di sforzo fisico che aveva iniziato a fare.

Evidentemente, l’aggancio emotivo che la teneva lontana dalla più minima frustrazione era così forte che un accorgimento razionale, per quanto prudente come quello che le avevo suggerito, non poteva avere successo.

Bisognava allora scendere a patti con la sfera affettivo/emotiva (il <basso>) e portare in qualche modo una “ricompensa” alla rinuncia emotiva che veniva richiesta.

Le diedi dunque questo compito paradossale: – mangia una sola volta ogni due giorni un pasto in cui ci siano tutti i cibi che ti piacciono, fai durare questo pasto mezz’ora (sempre usando un timer) e per il resto fai come vuoi. –

Garantii che se lo avesse fatto sarebbe dimagrita, e comunque che le costava provare?

Sembra il Bengodi per qualcuno che vuole dimagrire senza privazioni o fare fatica.

Ma… In ogni caso doveva farlo lei. Non c’era Babbo Natale.

Quindi, anche in questo caso le resistenze furono moltissime, ma la fatica emotiva richiesta era così poca che lo stimolo razionale fu alfine accettato, e la signora iniziò a fare le abbuffate programmate.

Come previsto, dimagrì (non sto a spiegare in questa sede il meccanismo di autoregolazione che tale pratica comportava, ci porterebbe troppo lontano): circa 7 Kg in un mese; erano stati tolti da una massa considerevole, comunque sette chili in meno senza fare niente, se non garantirsi i cibi più prelibati per un pasto ogni quattro, avrebbe dovuto essere un bell’incentivo!

A livello <alto> sì: a livello <basso> ancora non bastò.

Infatti, dopo quel mese, la paziente dichiarò di non riuscire a  proseguire con quella strategia: non sapeva perché, ma tutto ciò le sembrava insopportabile.

E il motivo, ai miei occhi, era uno solo: per quanto il  compito fosse piacevole, doveva farlo lei! Non c’era Babbo Natale!

Questo è un episodio estremo, e può darsi che lo abbia già esposto in altre occasioni, ma il procedimento non è così infrequente.

A livello emotivo, nel livello <basso>, ci agganciamo a dei sentimenti, sensazioni, percezioni, ideali e pensieri magici che creano un equilibrio dal quale per nessun motivo razionale vorremmo separarci.

Vale a dire che il nostro livello <alto> troverà sempre un motivo per rifiutare di spostare gli equilibri emozionali, in quanto dal <basso> il cambiamento è percepito come pericoloso!

Parlo di equilibri nel senso più neutro possibile: non intendo un equilibrio <buono>, ma il miglior equilibrio possibile che la nostra sfera emozionale sia riuscita a produrre in un momento precoce della nostra vita, e che, per un meccanismo di protezione (di difesa) tende a mantenere: è il celeberrimo meccanismo della coazione a ripetere.

 

Uno di questi meccanismi, coperti dalla protezione della coazione a ripetere, è quella che ho definito la Sindrome di Babbo Natale.

 

Tutto ha inizio in una convinzione profonda che nasce da una ferita ancestrale nella quale chi avrebbe dovuto provvedere per noi  NON lo ha fatto, o, peggio, ha tradito la nostra fiducia e aspettativa in un modo che percepiamo ancora irreparato.

Se l’emozione profonda rimane attiva e predominante, si produce un PENSIERO MAGICO in cui speriamo che la situazione spiacevole si trasformi, in modo simbolico, nel finale desiderato.

Agiamo cioè in modo che il trauma originario si ripeta sempre, attendendo che magicamente il finale cambi, che qualcosa non si sa come o perché, ponga rimedio a questa profonda ferita.

Non si tratta, ovviamente, di un pensiero razionale, ma di un aggancio emotivo così forte da condizionare potenzialmente tutta la nostra esistenza: vivremmo così nell’attesa che ciò che doveva succedere allora succeda adesso, per trasposte persone e personaggi, che diventano, simbolicamente, delle sorte di Babbo Natale.

E, siccome Babbo Natale non esiste, noi razionalmente sappiamo che tale condizione non si verificherà mai, ma siamo emotivamente vincolati ad attendere il miracolo.

Tornando alla signora dell’esempio, ella riproduceva costantemente un trauma infantile in cui era stata forzata a costrizioni che non aveva scelto (diete e attività fisica per mantenere un aspetto fisico desiderato dai genitori e non da lei), e che, evidentemente l’avevano profondamente ferita e fatta sentire tradita dalle persone per lei significative.

Nel presente il suo pensiero magico la obbligava a opporsi a qualunque sforzo e dieta nell’attesa che un atto risolutore magico risolvesse il problema (proprio come nel trauma originario si aspettava che le persone significative cambiassero idea e  considerassero le sue esigenze e bisogni).

Questo <atto riparatore> ha però la stessa possibilità di verificarsi nella realtà quanto l’apparizione di Babbo Natale il 25 Dicembre, e la povera signora continuava a dibattersi nella ricerca di soluzioni magiche, mantenendo di fatto in maniera oppositiva una corpulenza del tutto diversa a quella che i suoi genitori la avevano sforzata ad ottenere.

Questo caso è probabilmente il più pittoresco che mi sia capitato, ma la Sindrome di Babbo Natale ho avuto modo di riscontrarla più volte in svariati pazienti, con delle modalità di sofferenza che sono le più diverse tra loro, con il filo conduttore, però, dell’attesa magica di una risoluzione.

Tali manifestazioni possono produrre nel terapeuta una frustrazione simile a quella che hanno subito loro in origine.

Potrebbe venire da chiedersi, infatti: – Perché ti rivolgi a me se in realtà non vuoi cambiare niente? –

Anche questa però, sarebbe una domanda che viene dall’<alto>, mentre la Sindrome di Babbo Natale, come tutte le “cose che non hanno senso” che tratterò in questa serie di articoli, attiene a manifestazioni che provengono dal <basso>.

Quello che chiede un paziente afflitto dalla Sindrome di Babbo Natale sono due cose:

  1. Una comprensione profonda di un meccanismo che “non ha senso”, ma che ESISTE e condiziona la sua esistenza: il tuo compito di terapeuta è innanzitutto quello di calarti lì, in quella dimensione dove questi meccanismi si formano e accadono e far percepire che in quel mondo il paziente non è più solo;
  2. Creare una compensazione simbolica del danno subito, in modo che si possa riallacciarsi alla realtà privi di questo condizionamento, oppure

2bis  fare scaricare l’emotività repressa relativa al trauma originario, per liberare così il paziente dall’obbligo di ripetere lo stesso copione, in attesa di un Babbo Natale che non arriverà mai.

La cosa più difficile da assimilare è che esista quel piano di non-realtà, che si situa nel famoso livello <basso>, dove questi pensieri magici effettivamente si formano, si mantengono e vincolano la vita delle persone.

Questo è il senso del “cose che non hanno senso” che tratto in questa serie di articoli.

Spero che Babbo natale abbia aperto la porta della comprensione di questo livello di funzionamento, e abbia inoltre recapitato il dono della curiosità di proseguire nei viaggi attraverso i condizionamenti ripetitivi.

Il prossimo viaggio ci porterà nella Sindrome dell’Inquisitore.

Vi do quindi appuntamento per il prossimo lunedì.

A presto.