07 Dic

QUANDO È TROPPO… NON CE NE ACCORGIAMO!

Quando mobilitarsi troppo oppure troppo presto conduce a danni anche considerevoli. Cosa si intende per attivazione

Si parla in molti modi di attivazione, ed è un concetto che riguarda sia la condizione fisica che quella mentale. Per esempio, prima di una gara un atleta deve mettersi nelle condizioni di essere pronto allo sforzo che gli si richiede: gli sciatori compiono sempre degli esercizi prima di scendere, i calciatori che effettuano una sostituzione vengono “fatti scaldare” prima di entrare in campo, i pugili compiono saltelli e gesti vari al suono del ring prima di incrociare i guantoni, e così via. Tutti questi agonisti si stanno attivando, e la modalità fisica in cui lo fanno è evidente.
Lo sport è solo un modo semplice di presentare l’argomento: in seguito vedremo che l’applicazione di questi concetti si estende in tutti gli ambiti, ma per il momento mi mantengo sul terreno sportivo per chiarezza di esposizione.
Se è chiara l’attivazione fisica, meno evidente è l’attivazione psicologica: vale a dire il pensiero rivolto all’evento, il desiderio che cresce, insieme alla paura di non farcela, o all’immaginare le conseguenze (buone e cattive) del risultato, e, ancora più importante, tutte le emozioni a cui questi pensieri sono collegati. Anche le conseguenze di questa attivazione sono meno visibili: emissione di ormoni, modifiche alla fisiologia (respiro, battito cardiaco, ipercinesia) e una sensazione che di solito viene descritta come il sentirsi carichi.
Nel post in cui intervisto la campionessa di Paddle Sara D’Ambrogio, ella fa spesso riferimento a questa sensazione e lo fa con una enfasi che fa capire quanto questa componente sia importante per lei, per effettuare una buona prestazione.
In assoluto, Sara ha perfettamente ragione: la questione non è se è necessario disporre di attivazione, bensì di quanta siamo abituati a mobilitarne.

Usciamo dal panorama sportivo per un attimo ed entriamo in un ottica quotidiana: spesso questa attivazione psicologica noi cominciamo a metterla in moto chiamandola con un altro nome, e cioè preoccupazione.
Quando cominciamo a preoccuparci di qualcosa ci stiamo mobilitando verso l’oggetto dei nostri crucci, cioè stiamo mobilitando risorse psico-fisiche per poter fronteggiare quell’evento.
Al contrario degli sportivi, spesso per noi quell’evento non è ben definito, e magari non ha neppure una data: possiamo essere preoccupati per come va a scuola nostro figlio, o per la nostra relazione sentimentale… in ogni caso, verso quell’oggetto noi stiamo mobilitando delle risorse.
E, anche in questo caso, non discuto il fatto che sia giusto farlo (potrei piuttosto dissentire sulla scelta della parola preoccupazione: per chi è interessato a questo argomento consiglio lo stage Guai a me): quello che fa la differenza tra una buona e una cattiva attivazione (di questo si tratta, in sostanza) è in che misura questa viene utilizzata.

tante personalità una sola matrioska Se la misura è “corretta”, di fronte all’andamento scolastico di un figlio per esempio, potremmo iniziare a ragionare su come valutarlo e cercheremmo di capire dove poterlo aiutare senza essere troppo invasivi; senza attivazione lo lasceremmo probabilmente al suo destino. Però… se l’attivazione è troppa, e si trasforma in quella che viene poi chiamata preoccupazione, potremmo essere sopraffatti dall’ansia, e tempestare di domande il ragazzo appena passa l’uscio di casa, fare tragedie per una insufficienza, reclutare orde di collaboratori per dare ripetizioni, e un sacco di altre cose dai buoni propositi, ma dagli esiti tutt’altro che positivi; insomma, se l’attivazione è troppa, il problema rischia di peggiorare anziché risolversi, oppure di cristallizzarsi.

Tornando all’intervista di Sara, è chiaro che per lei è una abitudine che fa parte della sua routine quella di attivarsi molto (se è troppo, lo si valuta da parametri ben precisi, e alcuni li vediamo tra poco): questo la aiuta a sentirsi sicura, lei si coinvolge emotivamente con queste sensazioni e quindi ne ha bisogno per effettuare una buona prestazione.
Però, però… anche qui, leggendo bene l’intervista, possiamo trovare dei campanelli d’allarme. Sono due, in sostanza: la tendenza a infortunarsi, talmente abitudinaria da preoccuparsi se sta bene (!), e da affermare “quando sto male vinco”, e la difficoltà ad addormentarsi prima di una gara importante.
Entrambi sono segnali di un eccesso di attivazione, e di una anticipazione della stessa: caricarsi troppo ha delle conseguenze fisiche, spesso sulla tensione muscolare, che predispone agli infortuni. Addormentarsi con difficoltà, invece, richiama proprio la difficoltà a “lasciarsi andare”: non lo si può fare se si è attivati. E se ci si attiva per un evento che è lontano nel tempo (domani, per esempio, cioè dopo la nostra notte di sonno) si rischia di bruciare molte energie psico-fisiche per nulla: un po’ come accendere l’automobile la notte prima della partenza, e lasciarla accesa tutta la notte!  L’auto in questione avrà consumato molta benzina per nulla e si sarà surriscaldata: trovo che questa metafora sia molto adeguata per rappresentare chi si attiva con troppo anticipo: e uno dei sintomi più diffusi che denunciano queste persone è proprio l’insonnia.

Proprio con questo concetto posso ritornare ad un panorama più vasto di quello sportivo: l’insonnia, intesa come diversi disturbi relativi al sonno, è tipica delle persone che si fanno travolgere dalle loro preoccupazioni e non riescono a distaccarsene, né con il pensiero né con le emozioni, e quindi tra le altre cose dormono malissimo.
Per riprendere l’altro esempio di preoccupazione  (ormai possiamo intenderci sul fatto che spesso questo è un modo popolare di rinominare l’eccessiva attivazione) citato prima, quello relativo alla situazione sentimentale, se si anticipa troppo l’attivazione psicologica e si carica di tensione l’attesa di un incontro… ci si surriscalda e si riposa male, bruciando energie per nulla (come l’auto accesa con troppo anticipo e lasciata ferma) e si può giungere, proprio come gli atleti ad… infortunarsi. Intendo altri tipi di infortunio (sì, proprio quelli), cioè delle cose spiacevoli che possono accadere agli uomini… e che non sono piacevoli nemmeno per le loro partner.

Ho usato questo temine, infortunio, proprio per legarmi ai contenuti dell’intervista a Sara, la quale, mentre mi parlava, mi faceva subito pensare come a me sembrasse normale la sua tendenza agli infortuni, dato l’eccesso di attivazione che lei manifesta come abitudine personale. Lei ha poi trovato un equilibrio particolare per riuscire a “salvare capra e cavoli”, cioè un eccesso di attivazione e una buona prestazione: non molti ci riescono, e spesso, proprio come accenna lei, si disperano di fronte al ripetersi di eventi infausti in prossimità delle gare. Nella mia ottica, ripeto, ciò è assolutamente normale: attivarsi troppo, attivarsi prima, conduce a delle conseguenze che non sono funzionali a ciò per cui ci attiviamo, nonostante il fatto che l’attivazione serva proprio a farci rendere meglio (ma deve essere in misura “corretta”, non troppa e non troppo presto).

Purtroppo non c’è l’abitudine di considerare la questione da questo punto di vista; cioè, non ci si rende conto che è una questione di attivazione, e soprattutto si fa fatica ad accorgerci quando questa è troppa!
Ci sono troppe abitudini, convinzioni e, lasciatemelo dire, rassegnazioni circa il proprio funzionamento, per cui tutto quello cui siamo abituati diventa normale!
Non tutti sono bravi come Sara a trasformare una cattiva abitudine in qualcosa di produttivo: questa estate ho parlato con un mio conoscente, disperato perché per lui era diventato “normale” dormire tre-quattro ore a notte, avendo però un fabbisogno di sette-otto ore. Il suo sistema di credenze e di auto-attribuzioni (“io sono fatto così e cosà”) lo aveva indotto a mantenere una perenne attivazione che alla fine non gli faceva raggiungere nessuno degli obiettivi per i quali si stava attivando!

Riassumendo, molte problematiche, come ad esempio l’insonnia, possono essere legate a questioni di attivazione, che dovrebbe essere usata con parsimonia, come la luce elettrica: accesa quando serve, spenta quando non serve.
Invece, il fatto di tenerla sempre accesa (o comunque troppo) risulta controproducente in molti modi, ma… difficilmente ci si accorge che il problema sta lì.
Questo argomento fa anche parte dei contenuti del mio stage Il Meglio del Peggio di Te, per chi volesse approfondire; in generale, possiamo concludere che un percorso di consapevolezza può alleggerire il carico della nostra esistenza, e non è necessariamente più complicato del seguire le proprie convinzioni. È semplicemente qualcosa che funziona in modo diverso da come siamo abituati a pensare.