28 Lug

TESSERE IL PERCORSO DELL’ATLETA/PERSONA

Intervista a Claudio Pistolesi, il sarto del coaching nel tennis

 

Per preparare la presentazione di un nuovo trattamento per “sindromi sportive” (ma applicabile anche su altri ambiti) sto avvalendomi della testimonianza di esperti che possano raccontare come loro incontrano, nella loro professione, quei disturbi sui quali la mia metodologia vuole intervenire.

Il parametro con cui ho scelto i professionisti da intervistare è stato quello di essere dei leader, o anche dei team-leader: nella psicologia applicata, nel tennis (primo campo applicativo del mio nuovo metodo), e nel mondo della comunicazione ad alto livello.

Inizio con l’esperto di Tennis, e che esperto: ex campione  del mondo da juniores, ex tennista professionista, ora è da circa vent’anni uno dei più accreditati allenatori di tennis del mondo e recentemente ha aperto una sua Accademia in Florida, la Claudio Pistolesi Enterprise.

Ovviamente parlo di Claudio Pistolesi, il “sarto” dell’atleta/persona.

 

 

Ciao Claudio, come ti ho anticipato sto elaborando un nuovo strumento di applicazione della psicologia allo sport, particolarmente nel tennis. Tu sei un coach apprezzatissimo a livello internazionale e dirigi una tua accademia (la CPE, con sede in Florida): da 20 anni circa hai seguito e stai seguendo giocatori di alto e anche altissimo livello. Qual è il parametro di ordine psicologico che ti interessa di più quando qualcuno vuole essere seguito da te?

Beh, siccome si tratta spesso di ragazzi e ragazze minorenni, il primo parametro consiste nella valutazione, prima ancora di loro, dei loro genitori, e del rapporto che hanno tra loro.

Cioè?

Con la mia esperienza ho imparato che esiste un rapporto di “tipologie di genitori” che può essere riassunto numericamente in 20-60-20. Venti genitori su cento sanno interpretare bene il loro ruolo: fanno i genitori a casa, si alleano e sono d’accordo con il coach per quanto riguarda le scelte educative, richiedono informazioni legittime sul versante tecnico e ne negoziano  ovviamente il lato economico, comprendendo il valore del lavoro tecnico ed educativo  che si fa’ per i loro figli. Sono i genitori ideali, a cui rendere giustamente conto di quello che fai, ma nella consapevolezza che rispettano il tuo ruolo di esperto.

Immagino che l’altro 20 per cento sia all’opposto…

Infatti. Si tratta di coloro che vorrebbero essere loro i coach dei figli, pur non avendone le competenze. Allora, se ti incaricano, si sentono in diritto di interferire nelle scelte tecniche e di programmazione , che ovviamente non competono loro, chiedendo continuamente spiegazioni in modo provocatorio e, e prontissimi poi a renderti  responsabile di ogni sconfitta. Se il figlio perde una partita, vengono a dirti subito che sei tu che non stai lavorando bene, a prescindere.

E come ti comporti con loro?

Non mi comporto per nulla, nel senso che  se mi imbatto in questa tipologia non inizio nemmeno il lavoro, anche se spesso mi dispiace per i ragazzi, che non hanno colpa. Un lavoro così sarebbe una perdita di tempo e un salasso di energie, che poi non hai più da elargire ai ragazzi con famiglie sportivamente sane. È bene fare delle scelte, anche coraggiose in apparenza, perché mi rendo conto che non sempre si rinuncia a cuor leggero a una entrata economica . Bisogna però riuscire a vedere le cose nel lungo periodo. Per dire, genitori del genere magari ti fanno tribolare per due anni, poi quando alla fine non ce la fai più, rinunci all’incarico e loro poi, quando parlano di te in giro, cercano di metterti in cattiva luce. Ne è valsa la pena?

Col senno di poi, è facile dire di no, l’abilità sta evidentemente nel valutarlo prima. Mi par di capire che il rimanente 60 per cento sia composto di una categoria intermedia…

È  il gruppo più interessante, premesso che la priorità è sempre la crescita personale degli atleti, anche sul fronte del rapporto coi loro genitori, coloro che si possono far diventare, a seconda delle loro caratteristiche e delle scelte che fai insieme a loro, come la categoria “top” del primo venti per cento. Devi in pratica “ allenare “ anche i genitori, che se hanno intelligenza sportiva ti danno la chance di spiegare il tuo lavoro ed accoglierlo. In media, di quel sessanta per cento di “intermedi”, ne riesci a far progredire la metà che andranno nel gruppo dei genitori ideali. Se sei bravo anche di più.

Pare che tu dedichi molta attenzione ai genitori dei tuoi allievi minorenni…

Anche dei genitori dei maggiorenni se è per questo… È indispensabile: se di giorno si lavora sull’atleta, e la sera questi o questa vanno a casa e ricevono indicazioni totalmente diverse… se ne va il frutto della tua fatica, diventa come la tela di Penelope!

Scusa la domanda che può apparire banale, ma la faccio a beneficio di chi potrebbe chiedersela: come mai tanta importanza all’aspetto familiare, quando tu, in fondo, sei chiamato a curare l’aspetto tecnico e agonistico?

Ce ne sono, di quelli che si fanno questa domanda, altroché. E non  è una domanda poi così banale, anche se la  risposta è semplice: un giocatore di tennis non è soltanto un colpitore di palle, una applicazione tecnologica ad un programma, ma è una persona, i cui meccanismi di performance dipendono in gran parte dal lato emotivo, quindi la loro situazione familiare incide e come! Quando prendo in carico un giocatore, giocoforza mi occupo di tutta la persona, perché sono molteplici i fattori che influiscono sul suo rendimento, la famiglia in primis.

Dato il mio lavoro di psicologo sarebbe strano che non fossi d’accordo. E qui iniziamo a entrare nello specifico di questa intervista. Puoi raccontarmi di qualcuno che hai seguito che aveva delle problematiche prettamente psicologiche, le quali inficiavano il suo rendimento?

Per rimanere nel tema della famiglia, mi viene in mente un giocatore piuttosto noto (Davide Sanguinetti) che ho seguito per un certo periodo, quando sembrava essersi ormai assestato in una posizione di classifica mondiale nettamente inferiore al suo potenziale.  Mi resi conto che la sua programmazione era tutta sballata, incentrata su una superficie, la terra rossa, che non metteva in risalto le sue qualità, che erano invece da veloce.

E questa programmazione ha qualcosa a che vedere con problematiche di ordine psicologico?

Altroché… Pensa che uno dei parametri per cui mi sento di investire su un giocatore è la sua disponibilità a viaggiare… che va a braccetto con la disponibilità a viaggiare del coach. In questo momento, ad esempio,  un mio allievo sta disputando un torneo in Kazakistan e un altro in Israele… E insomma, mi presi praticamente il compito di  “ allenare “ tutta la famiglia di quel giocatore, dalla quale ho avuto una risposta molto importante ed intelligente  convincendo tutti a modificare la programmazione. Non a caso,  raggiunse poi  il suo top ranking, entrando nei primi cinquanta al mondo con vittorie ATP di prestigio assoluto come a Milano (contro Federer in finale) e Delray Beach (contro Roddick).

Hai inserito un nuovo parametro, parlando della disponibilità a viaggiare: possiamo dire che stiamo parlando di motivazione?

Anche, ma secondo me è qualcosa di più complesso, che faccio fatica a riassumerti. È un misto di fiducia nelle proprie possibilità, coraggio di compiere delle scelte anche impegnative, e avere la lucidità per mettersi sempre in discussione. Se si dà la possibilità di esprimere questo mix di competenze psicologiche, ho notato che esistono molti giovani su cui vale la pena investire. Bisogna però rimuovere i condizionamenti ambientali e familiari che  potrebbero inconsapevolmente remare  contro.

 

Intravedo una caratteristica comune nelle nostre professioni: da psicologo sono abituato a mettere insieme, e far funzionare, diverse variabili che riguardano i miei pazienti. Anche tu vivi qualcosa di simile?

Sì, anche se sono sempre molto conscio delle mie competenze e dei miei limiti. Ho riassunto il mio mestiere con la metafora del sarto: sono molteplici i tessuti che bisogna intrecciare per trovare l’abito ( l’allenamento ) “su misura” di chi stai seguendo. Perché, a mio modo di vedere, non esiste un “abito” che vada bene per tutti: la mia abilità di “sarto” è continuamente in gioco, con ogni allievo che mi viene affidato.

Come intuirai, mi interessa indagare e approfondire le componenti psicologiche di tale lavoro. Prima hai accennato a condizionamenti ambientali. A cosa fai riferimento?

Ai condizionamenti culturali, ad esempio. E intendo anche cultura sportiva, o più prettamente “tennistica”. Ad esempio, nel periodo in cui seguivo Robin Soderling (ex numero 4 del mondo), ci fu un tecnico che mi avvicinò per complimentarsi e muovermi anche un appunto: il suo servizio, secondo lui, era deficitario, migliorabile, perché non seguiva i dettami tecnici che tecnicamente, da “manuale” potevano essere definiti corretti. Peccato che Soderling avesse delle percentuali di rendimento del servizio che nessun altro al mondo poteva vantare in quel momento! Ecco, secondo me quello è un tecnico  pericoloso per i suoi allievi di ogni livello; avessimo fatto come diceva lui, avremmo condizionato il giocatore a modificare una cosa che funzionava benissimo, e tutto per una cieca sottomissione ad un presunto “ sistema” di insegnamento cui tutti “dovrebbero” rifarsi! Chissà poi perché: io trovo che tale sistema rappresenti esattamente l’opposto del mio modo di operare, che mi ha portato ad incredibili successi in più di venti anni di coaching.

Qual è il tuo concetto di competizione?

Prendo spunto proprio dalla etimologia latina, com-petere, andare insieme verso qualcosa. Anche se il tennis è uno sport individuale, ci si prepara sempre insieme, si vive insieme, tutti si volge verso un obiettivo. Il tuo avversario stesso è parte del tuo cammino. Il risultato poi, rispecchia il valore della performance, non della persona, che ha la responsabilità di migliorarsi. Con questa ottica non si vive mai la percezione di essere “perdenti”, cosa che accade invece a coloro che sono focalizzati sul risultato, in nome del quale, a volte, valicano il confine della correttezza e lealtà.   Chi pensa  pensa solo al risultato  non si gode né ama  il processo, cioè quello che sta vivendo, quindi percepisce malissimo il percorso di sport professionistico, e finisce con lo smettere presto.

Cosa intendi per “vivere il percorso” ?

Godersi quello che si sta facendo, anziché pensare solo a quello che si vuole ottenere. I migliori atleti si godono la propria prestazione: la vittoria o il risultato prestigioso sono solo delle gradite conseguenze. Infatti, i grandi campioni non sono mai sazi. Stanno semplicemente vivendo ciò che a loro piace fare e a fine carriera si accorgeranno di amare anche le volte in cui hanno perso.

Sentendoti dire queste cose viene in mente la tua storia da giocatore: prima campione mondiale juniores, poi una carriera agonistica che ti ha portato al massimo al 70esimo gradino della classifica mondiale. Non hai vissuto un po’ di delusione?

A livello under 18 e under 21 sono stato Campione del mondo sia a livello individuale che a squadre, e le aspettative su di me erano altissime da tutta Italia. Ma ho avuto un ottima carriera e mi piace considerare il bicchiere mezzo pieno.

Ma, vedi, io ora posso dire di amare tutte le partite che ho perso, e anche tutte quelle che ho vinto, perché mi hanno reso felice di quello che stavo facendo, e mi hanno indirizzato su un cammino ancora più denso di soddisfazioni, che è stato quello di allenatore. Un altro “tessuto da sarto” è quello di sapere aspettare a giudicare le cose. Per esempio, io devo dire grazie all’ernia del disco che mi bloccò alcuni mesi quando avevo 27 anni.

 

Claudio Pistolesi (a destra) da giocatore, con Yannick Noah

Perché?

Perché fu grazie ad essa che potei iniziare a farmi un’idea di cosa fare dopo l’attività agonistica. Quando mi ripresi e stavo rientrando nel circuito, mi contattò Monica Seles, che stava anche lei riprendendo l’attività dopo la brutta esperienza dell’attentato, e che aveva bisogno di uno sparring partner. Diventai molto presto qualcosa di più, e mi appassionai al preparare un atleta. Diventai pronto a mettermi in gioco.

Rischiare, mettersi in gioco, fare scelte nuove… sono queste le qualità psicologiche che tu ricerchi nei tuoi atleti?

Ci metterei anche lasciarsi andare all’esperienza, lasciarsi la possibilità di andare a vedere fino a che punto si arriva. Nel periodo in cui seguivo  come practice partner Monica Seles, mi fu proposto di occuparmi di un giovane giapponese promettente, Tadeo Suzuki. Lo incontrai in Olanda, giocammo un circuito satellite insieme in doppio: mi toccò prenderlo letteralmente per mano, perché sulla terra rossa era proprio a disagio, nonostante un buon potenziale. Scoprii che in Giappone c’era un mercato ancora vergine per quanto riguarda il coaching professionale dei tennisti  in campo maschile, e mi feci incuriosire dalla cosa, continuando a seguire il ragazzo che crebbe rapidamente in modo esponenziale. Andai in Giappone (non c’erano internet e gli smartphone nel 1996…) dove ancora un po’ e mi legavo al polso del giocatore per paura di perdermi (ride) … città di milioni di abitanti e non una persona che parlasse in inglese o una indicazione comprensibile! Beh, mi dissi, se sono riuscito a far centro in Giappone, posso riuscirci ovunque! Fu un altro passo che mi rese conscio di qual era la mia strada, cioè di trasformarmi in Coach professionista.

Quindi abbiamo chiaro quali sono le componenti psicologiche che cerchi di coltivare e abbiamo individuato anche alcuni elementi di disturbo rispetto a queste qualità: i condizionamenti familiari, sociali e culturali.

Corretto. Tutte cose nelle quali mi sono imbattuto, nel bene e nel male.

Ora vorrei approfondire le componenti negative, pertanto ti chiedo di individuare dei fattori di ordine psicologico che inficiano direttamente la prestazione. Proprio mentre si sta gareggiando.

Ce ne sono di tutti i tipi, fammi pensare… Sicuramente, un fenomeno che ho riscontrato spesso, a tutti i livelli, è quello di preoccuparsi troppo del punteggio. Ci si accorge di questo quando vedi qualcuno che è avanti, che ne so, 5-1, 5-2 e poi si fa rimontare.

La maggior parte delle volte non è l’altro che rimonta, ma quello che è in vantaggio che rende possibile il recupero.

In che modo?

Comincia ad assumere l’atteggiamento di chi spera che l’altro lo faccia vincere. È un meccanismo tanto perverso quanto diffuso, e secondo me è figlio della eccessiva importanza che si dà al risultato: quando lo si sente vicino, ci si agita e non si fanno più le cose che si facevano prima, quelle che ci avevano portati in vantaggio. Si tratta di un’ ansia, un’ansia  che assale nel momento in cui il traguardo si avvicina.

Una ansia  che induce a “sperare” di vincere anziché provare a vincere.

Infatti! Lo vedi che basta solo pronunciarla, questa frase, per rendersi conto di quanto sia assurda! Non si può SPERARE  di vincere, io lo toglierei proprio dal vocabolario di ogni agonista, questo verbo! È ovviamente un verbo figlio dell’ansia: ora, non dico che non si possa essere ansiosi, anzi, ma bisognerebbe mantenere quella minima lucidità per continuare a fare ciò che ti faceva vincere. Se “speri”, vuol dire che l’ansia  ha preso il sopravvento sulla tua capacità di incidere, di perseguire l’obiettivo, e smetti di “ fare gioco “ e cominci a “ sperare”.

Ci troviamo dunque di fronte a situazioni in cui l’emotività anziché essere una risorsa diventa impedimento. Possiamo dire che travalica la tecnica e la tattica?

In alcuni casi può succedere. E molto spesso la cosa è ripetitiva, e si vede che l’atleta non “impara” dall’esperienza, ma, anzi, ogni volta sembra peggiorare.

E cosa fai in quei casi?

Mi rivolgo a chi ne sa più di me, e maneggia di professione questi argomenti, come Alberto (Castellani). Come ti dicevo, fa parte della mia professionalità accorgermi dei miei limiti, del fino a dove posso arrivare.

Vorrei proporti io altre due situazioni, di ordine psicologico, che possono disturbare la performance. Innanzitutto vorrei sapere se le incontri nella tua esperienza. La prima è il “seguire il flusso”: ti è capitato di avere allievi o seguire giocatori che non sono in grado di cambiare il flusso della gara? Quelli che, se le cose iniziano ad andare male si infossano sempre di più?

Hai voglia. Ce ne sono moltissimi. In tal caso non è più semplice ansia , ma una strana agitazione, che impedisce di essere lucidi e di tentare qualcosa che inverta la tendenza.

Esiste una somiglianza con la situazione precedente, dunque. Agitazione anziché paura, ma comunque una situazione di blocco, mancanza di lucidità e capacità di intervenire.

Ecco, e ci metterei anche un’altra somiglianza: anche in questo caso l‘atleta in cuor suo “spera” che le cose cambino. Questo vuol dire che perde fiducia nelle sue capacità, proprio come nella situazione di prima. In tale condizione è difficile operare delle scelte, avere coraggio. È anche una questione di umiltà, secondo me: ci sta che ti capiti una giornata storta, un avversario più forte, una situazione sfavorevole. Se sei umile, ti ci impegni e ci lavori, anziché agitarti. Credo che un giusto livello di umiltà sia necessario per avere consapevolezza nei propri mezzi, e quindi fiducia.

Sembra che la fiducia nelle proprie possibilità e la capacità di operare scelte impegnative siano dei cardini della tua esperienza, dalla passione con cui ne parli.

Non mi ero mai trovato a rifletterci, ma effettivamente è così. Se ripenso a quello che ho fatto, in tanti ambiti, posso dire di avere seguito delle intuizioni e avere operato delle scelte rischiose, all’epoca in cui le facevo. Mi riferisco a scegliere di diventare coach quando avrei potuto ancora dedicarmi all’agonismo; a perseguire metodi di preparazione che andavano in controtendenza con i dettami “tradizionali”; Infine, ho trovato produttiva anche la scelta di trasferirmi negli Stati Uniti d’America, paese che ha molti difetti, ma che propone una cultura sportiva d’eccellenza! Lì si può diventare atleti professionisti e nel contempo proseguire gli studi, cosa che propongo sempre a chi si iscrive alla mia accademia.

 

Tutte scelte che non avresti potuto fare senza la serenità di una fiducia nei tuoi mezzi e nelle tue intuizioni…

Per carità, mica dico di essere infallibile. Cantonate ne ho prese anch’io, specialmente da giocatore… mi sono fidato di persone sbagliate, ho effettuato scelte sbagliate… Ma da quelle ho imparato e forse oggi sono proprio gli errori commessi a costituire la mia forza da coach, più delle cose che ho fatto giuste!!!

E comunque, quando ti butti in qualcosa non puoi pretendere di avere garanzie: quando sono andato in Giappone seguendo Suzuki mica sapevo come sarebbe andata a finire. Ma ci deve essere anche il gusto della sfida, dell’andare a vedere fin dove arrivano i tuoi limiti…

Una metafora di quello che accade a ogni gara…

Sì, in ogni partita mettiamo in gioco noi stessi, nella nostra totalità. Perciò capisco che emergano preoccupazioni, ansie… ma quello deve essere il gusto del gioco. È una questione di mentalità, che non sempre viene coltivata adeguatamente. Anche per questo ho ritenuto una buona scelta quella di trasferirmi negli USA.

In che senso?

Nel senso che spesso, dalle nostre parti, vige la “mentalità del circolo”. Vedi, la parola stessa, circolo, ispira la chiusura, la ristrettezza di vedute… Sei condizionato a vivere la tua carriera agonistica nel confronto di qualcuno o qualcosa: il compagno di circolo, l’avversario del circolo opposto… cosa ha fatto il vicino, il compagnuccio, eccetera. Di nuovo, anziché “amare il percorso”, come ti dicevo prima, stanno a guardare il risultato immediato, sempre. Io credo che, invece, ognuno debba cercare di scrivere la propria storia individuale: vedere fin dove riesci ad arrivare, quali sono i tuoi limiti. Altrimenti, i imiti te li metti da solo.

Che è quello che succede ai nostri ipotetici tennisti alle prese con i guai psicologici tipici che abbiamo visto prima (chi sta in vantaggio e ha paura, chi segue il flusso negativo e si agita). Vorrei chiederti un parere anche sull’altra situazione che avevo in mente: l’atleta iper-reattivo, che si arrabbia facilmente e resta arrabbiato a lungo. Trovi che anche quella sia una situazione svantaggiosa, che incide sulla  tattica e la tecnica?

Oddio, ci sono casi, rari, per carità, in cui la reattività esagerata incide in modo positivo. Sono pochi, ma nel caso… se uno vincesse bene spaccando una racchetta a partita, sarei io il primo a indurlo a romperle (ride). Il più delle volte però è un impedimento, perché per lunghe frazioni di gioco il tennista non è lucido e continua a pensare a quello che è successo prima, anziché concentrarsi su ciò che sta facendo.

Qui sotto propongo un video di un tennista “famoso” per farsi trascinare dai suoi impeti d’ira, a suo completo svantaggio. Nel secondo caso presentato nel video si chiede <perché devo trovare sempre degli idioti, perché capitano sempre a me> senza mai chiedersi quale sia la sua responsabilità circa la propria efficienza di gara.

Di nuovo, troviamo la scomparsa della lucidità. Che sia paura, ansia, agitazione o rabbia, il risultato pratico si ripete.

E si ripete anche, se vogliamo giocare a trovare le somiglianze, nella perdita di fiducia in se stesso. Se ti arrabbi per quella che ritieni una ingiustizia, ci sta… ma se ritieni di essere immune da ingiustizie, non sei abbastanza umile… e se resti arrabbiato a lungo, vuol dire che ti senti impotente, e se ti senti impotente, stai perdendo fiducia in te stesso.

Infatti. Credo che quindi ti interesserà venire a conoscenza dello strumento che sto approntando, e che tratta, nel senso di “cura”, anche queste situazioni.

Sono indubbiamente curioso al riguardo!

Molto bene, Claudio, ti ringrazio molto per la disponibilità e mi auguro che ci potremo sentire presto.

Grazie a te, ho avuto modo di riflettere, ricomporre alcune mie esperienze. Aspetto notizie sul tuo nuovo metodo, allora.

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