12 Apr

Il Tragedione a supporto di un’autostima traballante.

come l'autostima viene alterata dalla lamentela

La frase del titolo era il leit-motiv di una mia amica quando doveva descrivere la sua situazione contingente, e a me era chiaro che dietro la sua lamentela ci fosse una carenza di autostima.

Potevo chiamarla a qualunque ora del giorno o della notte, al lavoro o in vacanza, di lunedì sera o di domenica pomeriggio, estate o inverno, la tiritera era sempre la stessa: tragedie romanzate su fatti oggettivamente non così gravi, e il suggello conclusivo: – Non ce la faccio a farcela! –

Questa mia amica rappresenta l’incarnazione del lamentone simpatico (fino ad un certo punto…), che si finisce con il compatire davvero perché si intuisce la paura che ha di affrontare il mondo con le proprie forze: e quindi, ella aveva il bisogno impellente di trovare delle circostanze sempre molto più avverse di quanto non fossero effettivamente, tant’è che per lei ho coniato il verbo “tragediare”, cioè fare di qualunque cosa una tragedia. Vivendo costantemente in una tragedia, ella non aveva necessità di confrontarsi davvero con le proprie risorse, anzi: evitava proprio di mettere in discussione se stessa e soprattutto le sue convinzioni. Si “fortificava” stando dietro un baluardo inattaccabile, che reggeva a patto che la sua vita fosse costellata di sole “tragedie”: le virgolette sono d’obbligo perché le storie che raccontava erano molto buffe, nonché oggettivamente molto lontane dal concetto di tragedia.

Provo a fare un esempio: ai tempi in cui suo figlio aveva circa tre anni, in seguito alla separazione con suo marito, si trovava con un lavoro non proprio ben pagato e con la necessità di accudire i genitori anziani e non autosufficienti. Voi mi direte: questo, però, è davvero simile a una tragedia. Vero. Ma PER LEI, la tragedia NON era questa, bensì il cruccio che suo figlio potesse sviluppare una sessualità non adeguata, perché sarebbe cresciuto (parole sue!) “senza vedere nessuno che si facesse la barba”!

Ognuno può constatare da sé che in tale situazione ella aveva molti più motivi per conservare un’alta autostima: da sola, affrontava il lutto della separazione, la difficoltà di accudire figlio e genitori, e tutto ciò lavorando, e senza essere ben pagata. L’evidenza dei fatti non intaccava, però, la sua visione del mondo, la quale non implicava la considerazione di sé come una persona capace  e meritevole: da un punto di vista gestaltico possiamo dire che aveva creato un suo equilibrio in cui NON vivere in prima persona le sue esperienze nella realtà, bensì sperimentare di continuo una “vita” immaginaria dove poteva continuamente rammaricarsi di come il mondo “avrebbe dovuto essere”.

 

Secondo la terapia gestaltica uno dei modi di non vivere è quello di stare in disparte dalla vita dicendo a noi stessi cosa dovremmo fare. Con il “doverismo” non sviluppiamo il nostro essere ma perdiamo di vista ciò che siamo.  (cit. “Il primato dell’atteggiamento e la trasmissione dell’esperienza)

 

Il mio punto di vista, come già espresso in precedenti articoli, non prescinde mai dai bisogni inconsci che hanno contribuito in maniera decisiva a formare degli equilibri (emotivi e cognitivi) come quello sopra illustrato. Guardo i fatti: se la mia amica aveva bisogno di “tragediare” e lamentarsi di continuo di “non farcela a farcela” non poteva, contemporaneamente, coltivare una forte autostima, anche se i fatti oggettivi potevano tranquillamente confermargliela. Evidentemente, il bisogno prioritario di lamentarsi era più forte. Talmente più forte che, non solo ella trascurava i dati di realtà, ma se ne inventava una “parallela” che ai più appariva buffa, e ciò aveva almeno il pregio di renderla simpatica.

Ecco un dato che molti lamentosi cronici condividono: non potendo (per motivi che variano di persona a persona) accettare di avere una buona stima di sé, devono trasformare le interpretazioni degli eventi in modo da essere sempre delle vittime perseguitate.

Molti pazienti (e non…) con tali caratteristiche mi avrebbero risposto: – Ma come faccio a sviluppare dell’autostima, con tutte queste cose che non riesco a fronteggiare? –

L’esempio della mia amica inserisce il ribaltamento del punto di vista che mi piacerebbe fare osservare: perlopiù non si tratta di sviluppare dell’autostima in seguito a eventi esterni che ce la confermino, altrimenti entreremmo in un circolo vizioso in cui avremmo sempre bisogno di conferme: vivremmo nel dogma “esisto solo se gli altri me lo certificano”.

Permettersi di esistere a prescindere, invece, è qualcosa alla portata di tutti, se… non ci sono delle priorità inconsce che ce lo rendono impossibile!

A chi interessa questo tema, consiglio di iscriversi alla lista di attesa del mio laboratorio “Guai a me!”: molte di queste tematiche vengono sviscerate in modo leggero e divertente!

A proposito di cose divertenti, torniamo alla mia amica, e ai dati di realtà che permettevano di indagare abbastanza precisamente i suoi bisogni inconsci alla base dell’atteggiamento lamentoso: innanzitutto era impermeabile a qualunque tipo di consiglio o consolazione, e se le si prospettava una soluzione, continuava a metterla in dubbio e a chiedere reiterate rassicurazioni al proposito, salvo poi non metterla MAI in atto.

Due cose saltano all’occhio: primo, ella comunicava chiaramente la volontà inconscia di NON modificare la condizione “tragediante”, secondo, manifestava aggressività passiva nell’interlocutore, e quindi il bisogno di contestare, protestare, opporsi.

Il primo punto conferma l’analisi fatta in precedenza (ha bisogno di non riconoscersi dell’autostima), mentre il secondo ci informa del suo bisogno di rivendicare qualcosa, di accusare l’esterno (Me meschino, Me tapino). La “tragedia” ha il sapore della recriminazione: “soffro, così posso permettermi di poter accusare gli altri” oppure “soffro, quindi posso permettermi di dare fastidio”. Questa, naturalmente, era la sua motivazione. Ognuno può sviluppare, attraverso la lamentela, altre motivazioni, tanto sconosciute agli interlocutori quanto a se stessi.

Il mio intento è quello, attraverso questa visione interpretativa, di scuotere lo stallo nello quale una persona lamentosa mette se stesso e gli altri: una pastoia dove nessuno si muove, e nessun miglioramento è ipotizzabile, salvo avvenimenti miracolistici.

L’autostima è ovviamente intaccata, se le priorità motivazionali sono altre: volendo estremizzare, possiamo dire che la bassa autostima non è una conseguenza della lamentela, bensì una precondizione.

Se vuoi approfondire il discorso ti aspetto alla mia diretta Facebook, secondo appuntamento della Psicoteca, che questo mese si intitola “Me meschino, me tapino”: lunedì 30 Aprile, alle ore 21.00.

 

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A presto!