20 Ago

IL “PICCOLISSIMO” TRAUMA PSICOLOGICO

Cosa significa vivere un trauma psicologico, clinicamente parlando, e, soprattutto,  cosa si intenderà mai nel definirlo “piccolissimo”? Se ci facciamo caso, spesso abbiamo la possibilità di sentire storie di persone, magari anche molto vicine a noi, che si dichiarano “traumatizzate” da qualcosa. Di solito, ascoltando certi racconti, NON ci facciamo una domanda che pure dovrebbe essere ovvia: facciamocela ora.

 

Cosa vuol dire, esattamente, essere “traumatizzato”?

 

Scelgo di farmi aiutare da chi di traumi si occupa in maniera specifica, gli esperti dell’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing):

<<…  Il trauma psicologico, dunque, può essere definito come una “ferita dell’anima”, come qualcosa che rompe il consueto modo di vivere e vedere il mondo, e che ha un impatto negativo sulla persona che lo vive.>> (cit.)

 

Mi soffermerei un attimo su questa definizione, che comprende TUTTI i tipi di trauma, anche quello che io intendo come “piccolissimo”: di fronte a quella particolare situazione , e a tutte quelle simili ad essa, la “ferita” rompe gli schemi abituali producendo un impatto negativo.

 

Ovviamente ciò avrà delle valenze diverse a seconda dell’entità del trauma:

<<… Esistono i “piccoli traumi” o “t”, ovvero quelle esperienze soggettivamente disturbanti che sono caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intensa.. Accanto a questi traumi di piccola entità si collocano i traumi “T”, ovvero tutti quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. A questa categoria appartengono eventi di grande portata, come ad esempio disastri naturali, abusi, incidenti etc….>> (cit.)

 

Quello che mi interessava verificare, al di là delle differenze soggettive, erano le caratteristiche comuni che si producono e si verificano sia nei traumi t che in quelli T (e anche, vedremo poi, in quelli che ho battezzato trami r, vale a dire quelli “piccolissimi”).

Innanzitutto, e questo è entrato anche nel gergo comune, un “trauma” è un evento inatteso e molto sgradevole: soprattutto, però, giunge inatteso!

  • Dio mio, non me lo aspettavo, per me è stato un trauma! –

Si dice così, vero?

 

Bene, questo è senz’altro valido per tutti, quindi: punto numero 1, il trauma è sempre una (brutta) sorpresa.

 

Ora vediamo quali sono le reazioni comuni a tutti i “traumatizzati” (punto numero 2):

  • Si cerca di evitare di ripetere esperienze simili, arrivando anche a fare associazioni improprie (es.: sono stato rapinato da un uomo con i baffi e tendo a diffidare di tutti coloro che hanno i baffi);
  • Il solo avvicinarsi a situazioni simili, anche improprie, ci fa salire in maniera inusitata lo stato di arousal, cioè di sovraeccitazione del sistema nervoso (vedi sopra: all’avvicinarsi di un uomo con i baffi comincio ad agitarmi, mi si secca la bocca, aumentano le palpitazioni, inizio a sudare, eccetera);
  • Si entra in uno stato di confusione mentale (di fronte all’uomo con i baffi di cui sopra mi comporto in modo bizzarro ed inappropriato).

Con questi dati alla mano mi sono fatto una domanda.

Analizzando un ambito di per sé non traumatico, come la competizione sportiva, posso trovare delle situazioni, (comprendenti sia il punto numero 1 che il punto numero 2) che siano ancora più piccole dei traumi t e T, e cionondimeno influire negativamente sulla performance?

Mi spiego con un esempio.

Lo scorso luglio mi trovavo in Umbria, a seguire dei corsi di aggiornamento tenuti da Alberto Castellani.

In uno degli esercizi psicologici proposti sul campo, ci siamo trovati a simulare delle situazioni spiacevoli dichiarate dalla persona che si sottoponeva all’esercizio. Nella fattispecie, una giovane tennista aveva dichiarato di soffrire terribilmente il disputarsi i tie-break.

 

Ebbene, nella simulazione, sebbene ella fosse pienamente consapevole che si trattasse di un esercizio e non di una competizione, il suo stato di arousal saliva istantaneamente e agiva in preda a chiara confusione mentale. Inoltre, nel feedback successivo all’esercizio, dichiarava che le premeva di più “uscire al più presto dalla situazione sgradita” anziché focalizzarsi sulla strategia più adatta per vincere (cioè giocava in fretta i punti, “sperando” di vincerli, anziché applicarsi per giocare al suo meglio).***

C’erano delle corrispondenze precise al punto numero due: arousal inusitato, confusione mentale, condotta di evitamento (giocare in fretta i punti equivale a sottrarsi alla situazione stressante). Ho chiesto alla ragazza se ciò le accadeva spesso e la sua risposta non mi sorprese:

  • Non spesso, sempre! –

Ora, siccome il tie-break è una situazione che può accadere sovente a chi fa del tennis una professione, soffrirne così tanto costituisce un brutto handicap.

Ho anche avuto modo di chiedere ad allenatori e tecnici se atteggiamenti simili fossero frequenti negli atleti da loro assistiti, e la risposta fu che erano all’ordine del giorno. Sto anche intervistando vari nomi illustri per verificare se quello che io definisco trauma r sia una ricorrenza dell’atleta professionista, e ne ho finora ricevuto continue conferme.

Se non lo avete già fatto, consiglio a tal proposito l’intervista a Claudio Pistolesi pubblicata sul mio blog.

 

Insomma, può capitare che dei traumi ancora meno intensi e disturbanti dei traumi t si verifichino in degli ambiti specifici, e che quegli ambiti possano essere importanti per quella particolare persona (in soldoni, disputare un tie-break non può essere definito disturbante nella vita complessiva di una persona, ma se messo in relazione alla sua professione di atleta professionista… lo è, eccome.)

 

Ecco, quelli sono i traumi che io definisco “piccolissimi”, ma che possono diventare importanti in alcuni settori specifici della persona che li subisce.

Sto quindi allestendo il perfezionamento di un metodo, detto Unlocking

, insieme al mio collega, dott. Davide Perrone, per renderlo ancora più efficace, partendo dal presupposto dell’esistenza dei traumi r.

 

Forse può essere ancora più esplicativa l’esperienza che racconto in questo video.

 

È importante, in definitiva, tenere presente che alcune manifestazioni ripetitive di disagio psicologico nell’ambito di prestazioni di eccellenza (non solo sportive) hanno degli agganci emotivi simili a dei traumi, sia pure “piccolissimi”.

Approcciandoli con questa ottica, anziché con strategie ingenue, come spiego anche nel video, possiamo ottenere risultati molto più efficaci: in particolare faccio riferimento a quando affermo che un problema psicologico non può essere risolto allenando la “tecnica”.

Pare un ovvietà, eppure sono in molti a professare che l’atleta che affronta problematiche psicologiche, in ultima battuta compie un errore “tecnico”, e questo è vero: NON è vera, invece, la credenza che se tale atleta allena e migliora molto la sua tecnica, il suo problema psicologico diventi ininfluente.

Specialmente se il problema psicologico di cui si parla presenta le caratteristiche del trauma, sia pure r, cioè “piccolissimo”.

A problema psicologico, soluzione psicologica: ed è questo che ci prefiggiamo di fare, perfezionando Unlocking, il mio collega Davide Perrone ed io.

Presenteremo, in definitiva, uno strumento che si prefigge di raggiungere rapidamente dei risultati utili e fruibili per l’atleta: per esempio, se applicato alla tennista sopra citata, dovrebbe essere in grado di farle affrontare i tie-break senza agitazione, senza confusione mentale e senza il desiderio di “scapparsene via.”.

Vi aggiornerò sulla fase di sperimentazione.

A presto.

 

Tiziano

 

 

***Tratto dalla intervista a Claudio Pistolesi:

<<…Sicuramente, un fenomeno che ho riscontrato spesso, a tutti i livelli, è quello di preoccuparsi troppo del punteggio. Ci si accorge di questo quando vedi qualcuno che è avanti, che ne so, 5-1, 5-2 e poi si fa rimontare. La maggior parte delle volte non è l’altro che rimonta, ma quello che è in vantaggio che rende possibile il recupero.

In che modo?

Comincia ad assumere l’atteggiamento di chi spera che l’altro lo faccia vincere. È un meccanismo tanto perverso quanto diffuso, e secondo me è figlio della eccessiva importanza che si dà al risultato: quando lo si sente vicino, ci si agita e non si fanno più le cose che si facevano prima, quelle che ci avevano portati in vantaggio. Si tratta di un’ ansia, un’ansia  che assale nel momento in cui il traguardo si avvicina.

Una ansia  che induce a “sperare” di vincere anziché provare a vincere.

Infatti! Lo vedi che basta solo pronunciarla, questa frase, per rendersi conto di quanto sia assurda! Non si può SPERARE  di vincere, io lo toglierei proprio dal vocabolario di ogni agonista, questo verbo! È ovviamente un verbo figlio dell’ansia: ora, non dico che non si possa essere ansiosi, anzi, ma bisognerebbe mantenere quella minima lucidità per continuare a fare ciò che ti faceva vincere. Se “speri”, vuol dire che l’ansia  ha preso il sopravvento sulla tua capacità di incidere, di perseguire l’obiettivo, e smetti di “ fare gioco “ e cominci a “ sperare”. …>>